Il labirinto del silenzio

TR02_febbraio_1Una mamma tedesca e un papà italiano, cinquant’anni fra poco. Per Giulio Ricciarelli in Germania, dove vive e lavora, le radici mediterranee non sono mai state un problema. Attore (trenta film e tanto teatro) e da due anni regista cinematografico, forse più e meglio di altri con “Il labirinto del silenzio”, una pellicola girata nel 2014 uscita in Germania l’anno successivo e arrivata qualche settimana fa nelle nostre sale, ha avuto la forza e il coraggio di riaprire una pagina di storia che i tedeschi sembravano aver rimosso. Forza e coraggio premiati dal suo paese di adozione tanto da essere candidato proprio dalla Germania all’Oscar come miglior film straniero. Non ce l’ha fatta ad entrare nella cinquina finale, ma il senso di questo riconoscimento va ben oltre la dimensione artistica.

Il film è ambientato nella Germania est del 1958, una nazione nata sui tavoli della Conferenza di Jalta che ridisegnò l’Europa dopo la sconfitta del nazifascismo e politicamente controllata dall’Unione Sovietica. E’ la storia di un giovane magistrato, il procuratore Johann Radmann che con l’appoggio del suo superiore, il procuratore generale Fritz Bauer e insieme all’avvocato Otto Hallen e al giornalista Thomas Gnielka indaga con determinazione sovrumana per stanare gli ex membri delle SS, che dopo la guerra erano riusciti a ottenere impieghi pubblici.

“Il labirinto del silenzio” mette in luce il potere distruttivo del silenzio, la gravità di sottacere eventi di straordinaria importanza come l’orrore dei campi di sterminio. Un processo, quello della rimozione,  che inevitabilmente segna e compromette le realtà successive, nell’ottica di quel circuito di produzione, ripetizione e distruzione che attraversa la storia dell’umanità.

Radmann ne è disperatamente consapevole: per sovvertire totalmente la vecchia società, quella permeata dalla perversa ideologia del regime nazionalsocialista, non c’è altra strada che battersi sino in fondo contro la congiura del silenzio per ricostruire quelle pagine di storia che in tanti hanno provato a strappare.

Eliminare, punire e condannare tutti coloro che hanno collaborato alla deportazione degli ebrei ad Auschwitz sono lo scopo, la missione del protagonista, non c’è salvezza se i complici di quell’infernale progetto di morte resteranno impuniti. Lo spettatore è coinvolto da subito in questa difficile “missione” di denuncia sociale che Radmann intraprende e che gli provocherà, tra l’altro, anche una crisi interiore.

E così il terrificante genocidio pianificato da Hitler diventa il mezzo per esprimere il male oscuro di un Paese che vorrebbe dimenticare per non soffrire, ma che proprio per questo rimane intrappolato in un labirinto senza scampo, finendo per diventare l’inquietante allegoria di un sistema in cui tutti sono colpevoli e complici.

Articolo scritto da Giulia Pellini

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