Cento contro uno

TR18_febbraio_1I numeri non mentono: cento contro uno non è solo sinonimo di slealtà, è sinonimo anche di codardia. Erano più di cento i bulli che si sono accaniti contro una ragazzina appena dodicenne di Nuoro, che ha sofferto silenziosamente per cinque mesi prima di raccontare la sua vicenda alla famiglia. La storia ha dell’incredibile – o forse sarebbe meglio dire del grottesco. Questa ragazzina si è infatti ritrovata, suo malgrado, legata ad un epiteto assai poco lusinghiero: “portatrice di iella”. Più di un centinaio di suoi coetanei, tra compagni di scuola, conoscenti e perfetti sconosciuti, hanno cominciato ad additarla per strada come un ricettacolo di sfortuna, scoraggiandola al punto da non farla più uscire di casa tranquillamente. In sostanza, la popolazione giovanile di un’intera cittadina contro un’unica vittima. I genitori si erano accorti dello stato di apatia e desolazione in cui era piombata la loro bambina, e avevano provveduto a farle cambiare scuola, pensando che il problema fosse legato semplicemente all’ambiente scolastico. La situazione non era però migliorata, e quando la ragazzina ha trovato la forza di confessare la “congiura” di cui si era ritrovata vittima, la famiglia non ha certo perso tempo: con l’aiuto di un’amica della figlia hanno stilato una lista contenete i nomi dei bulli, e si sono presentati in tribunale. La sentenza? Ancora ignota, ma di certo qui non si parla più di un semplice scherzo (di cattivo, pessimo gusto): si tratta di una vera e propria persecuzione a carico di una ragazzina innocente. È devastante pensare che così tanti giovani – non uno, non due, ma oltre un centinaio – si siano lasciati coinvolgere in una vicenda del genere. Addirittura sconosciuti! Come se non fossimo nel terzo millennio, ma ancora nel Medioevo, e una ragazza potesse essere presa di mira da un’intera comunità e screditata da voci prive di un qualsiasi fondamento. Chissà, la prossima volta magari una ragazzina potrebbe essere accusata di stregoneria solo per la sua chioma fulva… È davvero questa la generazione 2.0 di cui tanto ci vantiamo? I figli del digitale, che imparano prima a digitare sull’ultimo modello di smartphone o tablet che si ritrovano sotto mano, piuttosto che a scrivere, ma che evidentemente si lasciano abbindolare dalle voci di paese come facevano i loro coetanei dell’anno mille. Il progresso, allora, dov’è? E l’empatia, la fratellanza, dove si nascondono? Davvero nessuno di quei cento ragazzi ha pensato, almeno per un attimo, che fosse sbagliato quello che stavano facendo? Nessuno? Nessuna compassione per una ragazzina che si è ritrovata costretta a vivere nell’ombra, per non dover sottostare all’umiliazione di vedere i suoi compagni fare gesti scaramantici non appena la vedevano passare? Se la risposta è no, allora qualcosa deve essere andato profondamente storto nell’educazione dei giovani negli ultimi vent’anni, ma se la risposta è sì, e qualcuno si è davvero chiesto se fosse moralmente accettabile quello che stava facendo, allora sorge spontanea un’altra domanda: perché rimanere in silenzio? È davvero così difficile andare contro la massa, scegliere di schierarsi dalla parte di chi è vittima e non carnefice, alzare la propria voce per rivendicare giustizia? Probabilmente sì, perché implica una responsabilità che molti non sono disposti ad accettare. Aveva ragione Hannah Arendt allora, definendo il male banale: è il bene ad essere complesso.

Articolo scritto da Francesca Sartori

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