Dalla vita non si esce vivi

Silhouette of hiking man in mountain
Silhouette of hiking man in mountain

Il nostro paese ha molti limiti, così come le persone che vi vivono. Spesso, quando un problema è considerato troppo spinoso da affrontare, o troppo delicato, si sceglie di ignorarlo, e di pretendere che non esista. Forse così, si crede che non si presenterà, e che non dovremmo, di conseguenza, preoccuparci di affrontarlo. La psicologia umana è forse una delle cose più complesse e difficili da comprendere. E, spesso, quando una cosa viene considerata difficile, quasi irraggiungibile, la si allontana. E se le malattie fisiche sono riconosciute, e coloro che ne soffrono vengono trattate con rispetto e curate con pazienza e comprensione, lo stesso non si può dire delle persone che soffrono di malattie mentali. Forse perché se ne sa ancora poco, ma le persone che soffrono di questi disturbi vengono frequentemente trattate come persone bisognose di attenzione, vengono squadrati con diffidenza, isolate e a volte viene incolpato loro di avere quelle malattie, di essere persone problematiche. Kay Jamison è uno dei massimi esperti al mondo di una malattia mentale in particolare, il disturbo bipolare, oltre ad essere una professore di psichiatria, e di essere lei stessa a soffrire di questa patologia, di cui si sa ancora relativamente poco. Lei personalmente ha lottato contro una forma di depressione molto grave, che l’ha portata più volte a disperati tentativi per togliersi la vita. Nel suo libro, “Una mente inquieta”, parla appunto della sua esperienza, analizzando e raccontando come sia cambiata la sua vita, a poco a poco ma in maniera radicale, senza che lei se ne accorgesse del tutto. Ad un certo punto, nel suo libro, si pone una domanda: Se potessi scegliere se avere o meno questa malattia, lo farei? E in un lungo discorso, indirizzato a se stessa quanto agli altri, coloro che la conoscono ma anche chi soffre di questa malattia, o chi non ne ha mai sentito parlare, ecco come risponde:

“Mi sono chiesta spesso se, avendo la possibilità di scegliere, vorrei avere la malattia maniacodepressiva. Per quanto strano possa sembrare, credo che sceglierei di averla. È complicato. La depressione è più orribile di come parole, immagini o suoni possano descriverla, non vorrei mai doverne attraversare un’altra che duri a lungo. Qualsiasi rapporto viene dissanguato dal sospetto, dalla mancanza di fiducia e di rispetto di se stessi, dall’incapacità di godersi la vita, di camminare, parlare o pensare normalmente, dallo sfinimento, dalle notti e dai giorni di terrore. Non si può dire niente di buono sulla depressione, se non che ti fa provare come ci si sente quando si è vecchi, vecchi e malati, quando si è vicini alla morte, con la mente rallentata, senza grazia né smalto né coordinazione, quando si è brutti e non si crede più nelle possibilità che offre la vita, nei piaceri del sesso, nell’armonia della musica o nella capacità di far ridere se stessi e gli altri. Perché mai, quindi, dovrei voler avere qualcosa a che fare con questa malattia? Perché come conseguenza credo onestamente di aver percepito di più, in modo più profondo, di aver fatto più esperienze, in modo più intenso, di aver amato di più e di essere stata amata di più, di aver pianto più spesso, ma anche riso più spesso, di avere apprezzato di più la primavera dopo i lunghi inverni, di essere stata vicinissima alla morte e di averla apprezzata di più, come di avere apprezzato di più la vita e visto il lato migliore e quello più terribile della gente, di aver lentamente appreso il valore dell’affetto, della lealtà e dell’andare fino in fondo. Ho sondato l’ampiezza, la profondità e la larghezza della mia mente e del mio cuore e capito fino a che punto entrambi sono fragili e inconoscibili.”

La sua risposta è molto simile a ciò che scrive Thoreau in Walden ovvero Vita nei boschi: “Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte che non ero vissuto. […] Solo quando ci siamo perduti, in altre parole, solo quando abbiamo perduto il mondo, cominciamo a trovare noi stessi, e a capire dove siamo, e l’infinita ampiezza delle nostre relazioni.”

Non possiamo sapere quanto intensamente Thoreau o Kay Jamison abbiano vissuto, paragonati a noi stessi, ma possiamo affermare quanto sia di gran lunga preferibile aver amato, vissuto e sofferto, che non aver vissuto per nulla.

Articolo scritto da Alessia Saragozza

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