Diritto alla morte: tra ipocrisia e liberta’

TR10_dicembre_1Memento mori.  Prima o poi moriremo tutti.  Michelle, una scrittrice francese di 74 anni, ha scelto proprio il giorno del suo compleanno per concludere la sua vita. Affetta da una grave malattia degenerativa alle ossa che la costringeva a letto per lunghi periodi da ben 19 anni, ha risposto alla domanda amletica “che senso ha continuare a soffrire se non c’è possibilità di guarigione?” compiendo, accompagnata dalle sue due migliori amiche, il viaggio che l’ha portata all’ultima tappa della sua vita, Zurigo, in cui ha compiuto il suicidio assistito.

Svizzera, Olanda, Belgio, Danimarca, Lussemburgo, Spagna, sono questi gli stati europei che in una società basata sul bello e in cui la morte è tabù, hanno legalizzato, tra il 1995 e il 2003,  l’eutanasia in forma attiva, passiva o di suicidio assistito.

In Italia invece, nonostante il dibattito sia acceso da molti anni, qualsiasi forma di “ dolce morte” è considerata reato e infatti i casi di malati terminali che hanno scelto la strada del suicidio per non abbandonare la loro dignità di persona e soffocare i loro ultimi giorni di vita nella sofferenza  sono circa mille l’anno.

La legislazione italiana appoggia solamente quelle che vengono chiamate cure palliative, o più comunemente conosciute come sedazione, che vengono applicate ai pazienti con il solo scopo di alleviare il dolore, facendoli entrare in uno stato di incoscienza e aspettando che la malattia faccia il suo corso, rendendo la persona una larva per i periodi in cui questa può protrarsi.

E così, ancora una volta, l’ipocrisia dello stato prevale sulla libertà e sul senso di umanità delle persone che si trovano costrette a cercare il diritto alla morte in altri paesi e portando il numero di morti per eutanasia clandestina a 20 mila casi l’anno. Una cifra clamorosa, influenzata anche dalla totale opposizione della Chiesa che,  proprio come ha espresso il messaggio di Papa Francesco ai membri della plenaria della Pontificia Accademia per la vita, considera l’eutanasia una forma di falsa compassione, di peccato contro Dio Creatore. Per Bergoglio il comandamento che chiede di onorare i genitori “oggi potrebbe essere tradotto come il dovere di avere estremo rispetto e prendersi cura di chi, per la sua condizione fisica o sociale, potrebbe essere lasciato morire o fatto morire e niente più delle cure palliative è espressione dell’attitudine propriamente umana a prendersi cura gli uni degli altri, specialmente di chi soffre.”

La depenalizzazione dell’eutanasia in Italia ha perciò ancora una lunga strada da percorrere, che porterà tanti altri malati a convivere con l’umiliazione di dover essere costretti a letto, a sentirsi un peso sulle spalle della propria famiglia, aspettando la fine nella sofferenza, consapevoli, però, di non compiere alcun reato o peccato.

Prima del grande gesto, qualcuno ha chiesto a Michelle se si considera un’amante della vita e se ci vuole coraggio per scegliere di ricorrere al suicidio assistito, e lei con il sorriso sulle labbra ha risposto: “ Non mi considero coraggiosa per aver scelto di morire. Sono coraggiosa per aver vissuto. Amo la vita ed è per questo che la lascio, in queste condizioni ormai non ci trovo più il senso.”

Un coraggio che, oltre i malati, devono avere anche le famiglie per sopportare uno strazio grande quanto le sofferenze dei propri cari. Uno strazio che può essere alleviato solo vedendo la pace nei loro volti. Tutto ciò sarà possibile solo quando in ogni paese nascere verrà considerato un dono, vivere una libertà e morire un diritto.

Articolo scritto da Martina Padoan

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