Il viaggio di chi parte per sopravvivere

TR11_novembre_3Il poeta francese Edmond Haraucourt nella sua poesia “Rondel de l’adieu” dice: “Partir, c’est mourir un peu” (Partire, è morire un poco). Ogni partenza, dunque, è dolorosa, ma alcune volte la separazione è molto più netta e violenta.

Secondo i dati dell’Onu, nel 2013 i migranti nel mondo erano 232 milioni. Le persone si spostano nel pianeta per diverse cause: a volte si lascia la propria casa per motivi scolastici o lavorativi, altre, purtroppo, si è costretti a scappare da una realtà che mette a rischio la propria vita e quella dei propri cari.

Queste persone fuggono da persecuzioni politiche, come in Eritrea, e da guerre e terroristi. In Siria, ad esempio, la guerra civile ha portato 4 milioni di persone a lasciare la propria casa, la propria patria, la propria vita in cerca di un luogo di pace dove poter riiniziare. Anche molti nigeriani decidono di partire poiché il gruppo terroristico di Boko Haram commette attentati in tutto il Paese da ormai più di dieci anni.

Dopo aver fatto la dolorosissima e difficilissima scelta di partire, gli emigranti cominciano il loro lungo viaggio: alcuni scappano via terra, altri via mare. La maggior parte arriva sulle coste dell’Europa passando per il Mar Mediterraneo, su barconi spesso troppo carichi e sicuramente non adeguati al trasporto di tanti individui. Il Mediterraneo, infatti, ha già visto più di 2000 morti solo in questi primi dieci mesi del 2015. Per chi, invece, percorre la strada via terra, arrivando in Ungheria si ritrova davanti ad un muro spinato di 175 km che il governo locale ha fatto costruire per bloccare l’influsso di profughi. Per quelli che lo vedono davanti a sé, il filo spinato sembra avere scopi completamente diversi: ostacolare la loro fuga e farli sentire persone da cui bisogna soltanto stare lontano, non degne di aiuto.

Coloro che riescono ad arrivare in Italia, in Germania o in altri Paesi sicuri sono solo a metà strada: si affacciano, infatti, su anni di procedure legali per ottenere il permesso di soggiorno e sulle innumerevoli difficoltà nel trovare un posto in cui vivere ed un impiego. La loro sfida più grande sarà, però, quella di dimenticare gli orrori dei luoghi dai quali sono scappati, il dolore provocato dall’aver abbandonato la propria casa, il sentimento di solitudine nel Paese in cui sono faticosamente arrivati. Abituarsi è difficile per tutti, ma per questi uomini, per queste donne e per questi bambini lo è ancora di più.

Noi che, invece, siamo comodi nelle nostre case, sotto coperte calde, con una tazza di the in mano, che leggiamo tranquilli; noi che, sebbene con i nostri problemi di ogni giorno, viviamo una vita serena, noi dobbiamo almeno tentare di capire queste persone e cercare di aiutarle, provando a condividere con loro la nostra Italia, la nostra città, la nostra vita di tutti i giorni.

Articolo scritto da Irene Poggiolini

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