Un velo che grida ‘ineguaglianza’

TR20_gennaio_1Samira Hodaei, Sadaf Tahvildarzadeh, Elaheh Mansourian, Ghazal Sadat.

Quattro nomi , quattro donne. Donne che stanno tentando di togliere quel velo che copre le loro teste, quella sottile stoffa che cerca non solo di nascondere il loro viso, ma anche (e soprattutto) i loro pensieri e le loro idee, nonchè la possibilità di esprimersi.

Lo hijab, infatti, non è un semplice velo. Nella cultura musulmana, esso è il simbolo di una forte limitazione che intrappola ogni pensiero e che, solido come un muro, limita i diritti di un normale essere umano. La libertà di pensare, difendersi, agire, ma soprattutto scegliere.

Samira Hodaei è nata nel 1981 a Tehran, Iran. Dopo essersi laureata, ha assistito l’artista Reza Derakshani per sei anni nel suo lavoro e durante il 2010 ha dipinto due dei suoi quadri più famosi, ‘Stone and Mute Birds’ e ‘Dancing in the Sharp Edge’.

‘Sono probabilmente una delle poche artiste iraniane che ha avuto l’opportunità di esibire la propria arte almeno una volta all’anno, ogni anno, per vent’anni. In questo periodo ho tenuto oltre 17 gallerie d’arte.’ Afferma, in una delle innumerevoli interviste.

Attraverso le sue opere tenta di comunicare al mondo la tragica situazione delle donne iraniane, cercando al contempo di promuovere coraggiose imprese come la sua, che spesso vengono stroncate sul nascere a causa delle rigide norme della società musulmana.

In un campo diverso, quello della moda, giovani universitarie hanno introdotto colori e modelli di abbigliamento diversi, rispettando però strette regole, fra le quali quella che afferma che ‘gli abiti devono sempre essere accollati, lunghi fino alla caviglia e con le maniche lunghe’.

L’imposizione della scelta degli abiti hanno involgarito i miei gusti,” ha confidato una ragazza “ora ho voglia di colori sfacciati”. Ma sia i colori più sgargianti che diversi tagli di abito, non sono ben tollerati.

Sadaf Tahvildarzadeh, fashion designer iraniana, lo sa molto bene e nonostante tutte le restrizioni persevera nel suo lavoro ed in questa battaglia.

La battaglia per migliorare la condizione femminile in Iran è un fronte aperto, che sembra quasi impossibile combattere. Le donne sono ritenute più deboli degli uomini nella costituzione fisica, eppure quest’ennesima credenza viene smentita da una donna che rappresenta quasi l’essenza stessa di questa battaglia.

Elaheh Mansourian pratica agonisticamente la disciplina Wushu, una tipologia di arte marziale cinese, ed ha vinto ben tre medaglie d’oro in un campionato mondiale in Malesia. Nonostante ciò, il suo nome è quasi sconosciuto nel suo paese e le restrizioni del governo sul viaggiare la ostacolano dal realizzare il suo sogno di partecipare ad una gara olimpionica.

Nemmeno il mondo dello spettacolo è stato risparmiato: l’attrice Marieh Vafamerhr, per aver recitato in un film nel quale raccontava le difficoltà delle donne iraniane, con l’aggravante di non aver indossato la hjhab, è stata condannata a 90 frustate ed un anno di reclusione.

Con lei, anche Ghazal Sadat, solista ed attrice, rischia di essere condannata con la sola colpa di avere il desiderio di comunicare ed esprimersi, essendo i suoi lavori sempre revisionati da un uomo. Nemmeno nel mondo della musica ha libertà: “Essere una solista  in Iran è molto differente rispetto agli altri paesi. Per legge, le donne non possono cantare da sole e devono essere sempre accompagnate vocalmente da un uomo. Stiamo cercando di cambiare tutto questo, tuttavia la situazione permane“, così afferma in un’intervista.

E‘ una situazione scioccante, assurda: eppure è così. Ma le donne iraniane sono delle combattenti, e sebbene gli uomini facciano finta di non vedere o cerchino di coprire con un velo la loro forza, riescono a vedere chiaramente che qualcosa sta cambiando. E‘ certo che continueranno a combattere, ed anche se non sarà facile, l’oscurità procurata da quel velo verrà portata via dal vento, e finalmente si vedrà la luce del Sole.

Articolo scritto da Lucrezia Angela Volpato

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