Una notizia un po’ bella, un po’ brutta

TR12_Gennaio_1In alcuni paesi è già una realtà concreta e in Italia questa nuova figura va delineandosi sempre di più: l’assistente sessuale. Molti di voi staranno leggendo queste parole con sguardo attonito, domandandosi cosa si celi dietro quel nome insolito.

Il cosiddetto “lovegiver” è un volontario formato teoricamente dal punto di vista psicocorporeo su sessualità e affettività.  Il suo compito è quello di dare la possibilità ai disabili di vivere esperienze erotiche e amorose e di guidarli alla scoperta del proprio corpo.

I pazienti che scelgono di usufruire di questo tipo di assistenza arrivano ad avere un rapporto sessuale completo solo in pochi casi, giacché il lavoro del lovegiver non si concentra solo sull’aspetto puramente “meccanico” del sesso ma presta anche attenzione all’educazione affettiva e sessuo-affettiva.

Positivo è il fatto che la società si preoccupi dei diritti e dei bisogni delle persone affette da patologie più o meno invalidanti e tra questi vi è senza dubbio il diritto all’affettività e alla sessualità, spesso sottovalutato nonostante possegga  enorme importanza.

Pur riconoscendo il carattere benigno di questa iniziativa, riflettendo bene sorge spontaneo porsi una domanda: gli assistenti sessuali danno sicuramente autonomia ai disabili, ma li mettono davvero in una condizione di parità rispetto ai “normodotati”?

Nella normalità quotidiana due persone s’incontrano, si conoscono, si scelgono e s’innamorano, sviluppando il loro sentimento reciproco e la sessualità che ne deriva. Chi di noi si sognerebbe mai, quando sente il bisogno di sentirsi amato, di alzare la cornetta e chiamare un volontario?

Davvero nella società moderna è universalmente accettata l’idea che un diversamente abile non possa costruire una relazione con le stesse modalità degli altri?  E’ realmente impossibile per loro trovare qualcuno che li veda non come un peso da sopportare ma come un tesoro da amare e accudire?

Una relazione basata sull’amore e non sull’assistenza sarà sempre un’utopia per loro?

Un’iniziativa ancora più efficace di quella degli assistenti sessuali potrebbe essere quella di organizzare, a partire dalle scuole primarie, programmi educativi che spieghino a bambini e non che la diversità che vedranno nel proprio compagno di banco o nel collega, in quell’anziano signore che trema o in quella ragazza dall’aspetto insolito non è sinonimo di disparità e bruttezza, ma può essere visto come una caratteristica che porta a scoprire nuovi modi, magari impensabili prima, di superare gli ostacoli e di vivere le esperienze della vita.

Se il “diverso” viene spesso guardato con timore, a volte addirittura con disgusto, se viene scacciato ed emarginato forse siamo noi, non loro, ad avere bisogno di essere rieducati.

L’amore non è un esame clinico, un farmaco o un intervento di avanzata chirurgia, non è assistenza o volontariato, l’amore è “solo” amore, per tutti.

Articolo scritto da Laura Forzese

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