Samuel Artale

TR20_febbraio_227 Gennaio 2015, giornata della memoria. Ci dirigiamo verso la sala congressi di Confartigianato (Vicenza), dove ci aspetta quello che sarà uno dei tristemente ultimi incontri con un sopravvissuto, un testimone in prima persona dell’inferno di Auschwitz. Samuel Artale, nato ebreo prussiano, parla un perfetto italiano con uno strano accento, un misto di americano e tedesco. Egli infatti, dopo essere stato liberato a 8 anni (internato a 7) dal lager, è finito in un orfanatrofio degli Stati Uniti, dove è cresciuto con odio fino ad incontrare quella che sarebbe stata la sua futura moglie e madre di due figli, italiana. Perché ho citato l’odio?

Vedete, questo potrebbe essere un bellissimo articolo di pura testimonianza, e lo sarà, ma voglio al contempo esprimere un concetto, portatoci all’attenzione dal signor Artale al quale, solitamente, non si pensa. Perché un bambino che vive questa esperienza, il primo giorno appena sceso dal treno sua madre abbattuta davanti a lui e un neonato, conteso alle due parti (uomini da una parte, donne dall’altra) strappato a metà, finirà col diventare quello che vuole il campo: un non-uomo. Ci racconta Samuel quella che è stata la sua vita nel campo. Nessun atto di umanità, da nessuna parte. Se non il sopracitato primo giorno, quando un uomo gli disse tre cose: non dire mai il tuo vero nome, ogni giorno ripetiti incessantemente il tuo nome, che qua si corre il rischio di dimenticarlo, e sopravvivi. “Io, da bravo bambino ben educato, ho obbedito a tutto”. È stato però anche “fortunato”. Egli è finito tra le mani del dottor Mengele, scienziato pazzo che conduceva gli esperimenti più orribili, con una predilezione per i bambini. È finito tra i Sonderkommando, squadra “speciale” addetta alla rimozione dei cadaveri dalle camere a gas. Lui aveva mani piccole, perfette per ispezionare gli orifizi dei cadaveri in cerca di oggetti nascosti. Per questo motivo soprattutto, l’appartenenza ai Sonderkommando, era tra i primi scelti per l’ultima grande ondata di sterminio perpetuata prima dell’abbandono dei campi, quando la Germania aveva capito di aver perso la guerra. Ma insieme ad altri due uomini i quali avevano capito che aria tirava di è nascosto sotto la neve per due giorni, e alla fine sono arrivati i russi.

Dopo gli è rimasto solo l’odio. Il lager era riuscito nel suo intento, egli non aveva più famiglia, più amici, più casa. Così, arrivato in un orfanatrofio americano è cresciuto senza amici, mettendocela tutta per essere il migliore a scuola, ma solo per il potere, per una qualche vendetta. Si arruolò nell’esercito. Poi incontrò una donna, un’italiana di Ferrara, che riuscì a cambiare tutto il suo odio in amore. Così, non ci spiega bene perché, forse neanche lui lo sa. Ma lei è riuscita a farlo veramente uscire da Auschwitz, sa salvarlo. “Sarei diventato uno dei più efferati criminali altrimenti”, ci dice. Così, dopo essere stato salvo nel corpo, dai sensi di colpa che hanno ucciso Primo Levi (“fortunatamente ero un bambino, e non pensavo a queste cose” ) ma con l’anima persa nel “buco nero di Auschwitz”, ha avuto salva la sua umanità. Dopo tanti anni ha perdonato infine tutti, ogni nazista, ha perso l’odio per tutti, tranne che per quelli che hanno ucciso sua madre, privandola dell’ancestrale diritto di protezione dei figli. Scendendo all’inferno ha perso l’umanità e l’ha ritrovata dopo anni, solamente grazie all’amore. Una sola cosa però dice di aver perso per sempre, dal primo passo nel campo: la fede. “Mia moglie è molto cristiana, ha provato a convincermi, ma quella non l’ho mai più ritrovata”.

Così passa un’altra storia di umanità perduta. Prendiamo questa per esempio, ogni giorno della nostra vita, di quanta malvagità è capace un essere umano, ma al contempo di quanta bontà e salvezza.

Articolo scritto da Marco Filippin

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